
La storia – tutta italiana – che negli ultimi 25 anni ha rivoluzionato la prognosi della leucemia più incurabile
Era il 2000 quando in Italia il Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto (GIMEMA) inaugurava il primo protocollo clinico per il trattamento senza chemioterapia dei pazienti anziani affetti da leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva (LAL Ph+), ovvero il tumore ematologico con la prognosi più sfavorevole in quegli anni. Lo studio veniva sostenuto dall’allora Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, oggi fondazione AIRC.
I pazienti venivano trattati con l’imatinib – un inibitore della tirosina chinasi (TKI) mirato al difetto genetico (BCR:ABL) della malattia – e con steroidi, ottenendo tutti una remissione della malattia.
Da allora e fino a oggi, in tutti i successivi protocolli nazionali GIMEMA, per la terapia di induzione è stato utilizzato un TKI di prima (imatinib), seconda (dasatinib) o terza generazione (ponatinib), sempre senza chemioterapia sistemica. Questa strategia terapeutica, basata su un TKI associato a uno steroide, ha permesso di ottenere percentuali di risposta nel 94-100% dei pazienti adulti di tutte le età affetti da LAL Ph+, con una bassissima tossicità.
Negli anni la ricerca tutta italiana del gruppo coordinato da Robin Foà – professore emerito di Ematologia della Sapienza – ha compiuto ulteriori passi in avanti: il tassello successivo è stato aggiungere in consolidamento, dopo la terapia di induzione con TKI, l’anticorpo monoclonale bispecifico blinatumomab. Tale farmaco agisce da un lato legandosi a un antigene, il CD19, espresso dalle cellule leucemiche, e dall’altro attivando nell’organismo una risposta immunitaria, legandosi al recettore CD3 presente sui linfociti T del paziente.
L’approccio “chemio-free”, basato sulla combinazione di una terapia iniziale di induzione (dasatinib e steroide) seguita da una strategia di consolidamento immunoterapica (blinatumomab), ha portato alla remissione nel 98% dei pazienti e, soprattutto, a remissioni molecolari fino all’80% dei casi (“New England Journal of Medicine”, 22 ottobre 2020).
Ad un follow-up di quasi cinque anni – i cui risultati sono stati pubblicati il 21 dicembre 2023 sul “Journal of Clinical Oncology” – si sono osservati tassi di sopravvivenza fra il 75% e l’80%, risultati mai ottenuti con i precedenti protocolli terapeutici. Inoltre, per la prima volta si riportava che il 50% dei pazienti era stato trattato solo con TKI e immunoterapia, senza chemioterapia né trapianto.
La ricerca è proseguita con l’ultimo protocollo GIMEMA, in cui è stato utilizzato il TKI di terza generazione ponatinib seguito dal farmaco blinatumomab. I primi promettenti risultati del protocollo, che ha chiuso l’arruolamento a gennaio 2025, sono già stati presentati nel 2024 a San Diego al Congresso della Società Americana di Ematologia (ASH) da Sabina Chiaretti, professoressa del Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione della Sapienza.
Alla luce dei risultati ottenuti in questi ultimi 25 anni, il “New England Journal of Medicine” ha chiesto al professor Foà di scrivere una review su come è cambiato negli anni il trattamento e la prognosi della LAL Ph+.
La review, intitolata “Ph+ Acute Lymphoblastic Leukemia – 25 Years of Progress” e pubblicata il 15 maggio 2025, ricostruisce la storia di questi 25 anni di ricerca, che hanno portato a un cambiamento radicale dell’approccio terapeutico e nella prognosi dei pazienti adulti affetti da LAL Ph+, proponendo terapie che non ricorrono alla chemioterapia.
Oltre ai limitati effetti collaterali dell’approccio “chemio-free”, la review mette in risalto la marcata immunomodulazione che la terapia induce nei pazienti, arrivando fino a ipotizzare la possibilità, impensabile sino a pochi anni orsono, di sospendere il trattamento.
Infine, l’analisi mette in rilievo la discrepanza tra ciò che si vorrebbe poter fare per tutti i pazienti e la situazione reale: si parla, in questo caso, di “Recommended Frontline Strategy” e di “Real-Life Frontline Strategy”, a sottolineare come, nonostante i brillanti risultati ottenuti, troppo spesso ci si trovi davanti all’impossibilità di implementare la terapia ottimale di prima linea.
“Nel nostro paese ci sono tutte le possibilità per migliorare significativamente il trattamento e il decorso dei pazienti – dichiara Robin Foà – ma è paradossale che, di fatto, non solo non possiamo trattare i pazienti con la strategia che ha portato a un cambio radicale nella prognosi della LAL-Ph+, ma nemmeno attivare un nuovo protocollo clinico, com’era nelle nostre intenzioni”.
Riferimenti:
Robin Foà - Philadelphia-Positive Acute Lymphoblastic Leukemia – 25 Years of Progress - New England Journal of Medicine 2025;392:1941-1952.
Info:
Robin Foà
Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione